Oggi conosciamo: Cleto Corposanto

La sociologia della salute è un campo di ricerca poco conosciuto. L’idea di parlarne è stata di Valentina Marino, responsabile della nostra area Educational, che mi ha aiutato a pensare le domande per il Prof Corposanto. L’incontro con lui, anche se virtuale, è stato per me rivelatore di molti aspetti legati alle intolleranze alimentari che spesso tutti noi intuiamo, ma che non riusciamo a descrivere e afferrare pienamente.
Vi invito a leggere fino in fondo, abbiamo toccato diversi temi caldi sui quali torneremo sicuramente.

Cleto Corposanto

Domanda di rito: chi è Cleto Corposanto?

Domanda complessa, che necessita una risposta articolata. Intanto sono un professore universitario di sociologia, ho lavorato a lungo a Trento prima di trasferirmi con soddisfazione a Catanzaro per avviare qui un nuovo corso di laurea. Sociologia a Catanzaro è oggi il corso del suo genere con il maggior numero di matricole iscritte, e questo è ovviamente molto gratificante. Dentro il mare magnum della Sociologia, mi sono sempre occupato di metodi e tecniche di ricerca sociale; sono insomma un metodologo. Votato però a studiare cose “spendibili”, e quindi da una quindicina d’anni studio la salute, la malattia, ovviamente dal punto di vista del loro significato sociale. Esiste una precisa branca di studi di Sociologia della salute e della medicina, e dopo averne fatto parte per qualche anno nel 2014 sono stato eletto presidente nazionale del gruppo di sociologi accademici che si occupano di queste cose. E questa è la parte accademica. Poi sono stato per sette anni volontario in AIC, prima come presidente del Trentino, poi come consigliere della federazione nazionale e infine come vicepresidente nazionale, prima di uscirne. In AIC ho dato vita alla nascita dell’Osservatorio sulla qualità della vita in celiachia, realtà che ha prodotto numerosissimi studi sul versante socio-economico. E, last but not least, sono padre di Sara, che oggi ha 25 anni, celiaca da quando ne aveva circa 17.

Quando e perché ha maturato l’idea di occuparsi di intolleranze alimentari e celiachia?

Ho maturato l’idea di occuparmi di intolleranze alimentari e in particolare di celiachia qualche anno fa, quando ho realizzato che non esisteva in pratica alcuno studio sugli aspetti sociali di questa tipologia di problemi di salute. Ho cominciato quindi ovviamente con una ricerca che si è concretizzata nel 2008 nel primo studio sull’argomento, Celiachia e capitale sociale. Uno sguardo sociologico sulle intolleranze alimentari, uscito sulla rivista Salute e Società. A quel primo lavoro ne sono seguiti molti altri, compreso un volume dal titolo Celiachia, malattia sociale. Un approccio multidisciplinare alle intolleranze alimentari, nel quale ho messo assieme studiosi di varia formazione – medici, psichiatri, psicologi, sociologi of course – per cercare di comprendere appieno questa realtà.

Qual è, oggi, la rappresentazione sociale della celiachia nel senso comune, nella sanità, nei media e nel mercato?

Purtroppo manca ancora una conoscenza precisa, nell’opinione pubblica, di cosa sia la celiachia e di cosa implichi quotidianamente. In questo i media purtroppo non sono di grande aiuto – e i produttori neanche, viste alcune pubblicità sul tema – nella diffusione di quella che chiamerei “cultura della celiachia”. Il senza glutine non è una scelta alimentare come tante altre; uno può legittimamente decidere di essere vegetariano, vegano, crudista, consumatore a km zero, seguire paleodiete o attingere solo al mercato del biologico: in tutti questi casi è la persona che fa una scelta (sempre e comunque revocabile). Nel caso della celiachia le cose stanno diversamente: non scegli tu, ma in qualche modo è la celiachia che “sceglie” te. E il senza glutine non lo decidi tu, ma lo subisci. Per sempre.

Questo significa che il grande sforzo – in una società epistemologicamente tollerante – va fatto nella direzione di rendere possibile una cosa assolutamente naturale e necessaria, come il mangiare, in maniera non pericolosa per tutti: giusto rispettare le scelte, che so, dei vegani (quanti ristoranti oggi tengono conto di queste richieste da parte dei loro clienti?) ma altrettanto giusto dovrebbe essere mettere in condizione di mangiare serenamente anche chi non ha fatto una scelta ma la deve subire.

Sento ancora parlare di dieta senza glutine come di una scelta salutista da parte di chi non è celiaco; addirittura qualcuno dice che è anche dimagrante… Sono tutti giochi di un mercato che ha scoperto una nicchia nuova e interessante e prova a sfondare anche in quella direzione… Basta vedere come in molti negozi – soprattutto nella grande distribuzione – oggi i prodotti gluten free si trovino in reparti appositi, magari mescolati a seitan e kamut, con una tranquillità che denota solo poca conoscenza del problema. Su questo ci vuole grande attenzione.

Molti intolleranti al glutine amano ripetere che il celiaco non è una persona “malata”. Secondo lei, il fatto di definire la celiachia come una semplice condizione può essere considerato scientificamente corretto oppure è solo un modo per metterne in ombra la natura patologica, spesso difficile da accettare?

Discorso complicato e interessante; me ne sono occupato scientificamente, quindi proverò a dare una risposta. Intanto va detto che la considerazione se la celiachia sia una malattia o una condizione ha una risposta plurale: per i medici è ovviamente una malattia (sia pure con gradazioni diverse, molto dipende dal medico…), per i celiaci la cosa è un po’ più complicata. Per molta gente che è celiaca certamente la percezione è quella di avere una malattia: strana, sfuggente, insidiosa, e questo vale soprattutto per chi ha avuto una sintomatologia problematica e, magari, non ha neanche una perfetta risposta dopo aver eliminato il glutine dalla propria dieta. Ma vi è una larga parte di celiaci che, viceversa, sfuggiva alla diagnosi anche perché magari asintomatico; e che, dopo la dieta, ha continuato la propria vita senza grandi problemi di salute. Ecco, la multidimensionalità della risposta alla domanda sta quindi nel fatto che questo camaleonte che è in realtà la celiachia porta a valutazioni differenti a seconda dei casi.

Questo emerge molto bene dalle mie prime ricerche: in fondo, per cercare di spiegare alcuni risultati, bisogna partire dal danno complessivo apportato da una malattia, una qualsiasi. La stessa definizione dell’OMS di “completo benessere bio-psico-sociale” per caratterizzare uno stato di buona salute ci aiuta a capire: fatto 100 il danno globale di una malattia (nel nostro caso la celiachia) i risultati dimostrano che il danno è certamente – e totalmente – biologico quando la persona non sa ancora di essere celiaca. In questo caso, ovviamente, bisogna parlare di malattia in senso tradizionale. Le mie ricerche dimostrano come, nella percezione dei celiaci, una volta avuta la diagnosi – e trascorsa una quantità di tempo variabile dalla stessa, non uguale per tutti i soggetti – la percezione di malattia lentamente sfumi, facendo viceversa emergere una caratterizzazione del danno sociale.

Da questo punto di vista, le variabili esplicative sembrano essere due: la distanza della diagnosi (più passa il tempo più si affievolisce l’idea di malattia) correlata ovviamente con l’età dei soggetti al momento della diagnosi stessa. La percezione, insomma, cambia in ragione di questi due dati. Questa è anche la ragione per cui la celiachia va considerata a tutto tondo una malattia “sociale”: perché se questo aggettivo da un punto di vista strettamente epidemiologico serve a caratterizzare una patologia che colpisce una percentuale pre-definita di persone, nella nostra accezione “sociale” vuol dire principalmente che ha implicazioni importanti sulla capacità relazionale delle persone. Che colpisce, appunto, gli aspetti sociali della vita quotidiana.

La necessità di attenersi ad una dieta precisa e rigorosa può condizionare la quantità e la qualità delle relazioni sociali?

Certamente sì. E’ proprio questo il senso dei risultati delle nostre ricerche. Non dimentichiamoci che noi mangiamo per assolvere ad un bisogno biologico, ma il mangiare è, allo stesso tempo, un formidabile agente di relazioni sociali. Il cibo è intimamente legato, nella storia dell’umanità, allo stare assieme, al condividere. Essere compagni vuol dire “cum panis”, condividere il pane. Pensiamo alle cene di classe, alle gite scolastiche, alle pizze in comitiva, alle cene sociali, agli spuntini nelle pause lavoro; pensiamo ai regali a base di cibo quando incontriamo una persona cara, un familiare, un amico, una persona malata, e capiremo il grande valore sociale del cibo. Quelle appena descritte sono cose che i celiaci certo possono fare, ma con grande attenzione, e soprattutto non ovunque. Questa è certamente una limitazione, e i celiaci la percepiscono esattamente come una limitazione, ripeto soprattutto quelli che hanno oramai risolto da tempo i problemi biologici e superato magari anche quelli psicologici legati all’accettazione di una cronicità.

Sarebbe così gentile da chiarire ai nostri lettori il suo modello ESA e in particolare il costrutto di “sonetness”?

Il modello ESA, che ho descritto per la prima volta nel 2008, è uno dei risultati teorici più importanti delle ricerche fin qui svolte in tema di aspetti sociali della malattia. Nasce dall’applicazione (sulla scia della già ricordata raccomandazione dell’OMS di considerare la salute come presenza di completo benessere bio-psico-sociale) del primo modello interpretativo integrato della salute che si deve a Twaddle nel 1968. In quella sede fu proposto di considerare la malattia come disease, cioè uno stato di malfunzionamento organico oggettivo riconosciuto dalla scienza medica; ma anche come illness, cioè lo stato generico di sofferenza (inclusa quella legata agli aspetti psicologici dell’accettazione) che pervade la persona affetta da qualsiasi disease. E infine, terzo elemento della Triade è la sickness, vale a dire lo status di “malato” assegnato dalla società a chi ha qualche disease e che permette, per esempio, di poter usufruire di permessi lavorativi in presenza di malattia. Una sorta di certificazione accettata, insomma.

Recentemente – nel 2007 – il collega Antonio Maturo aveva proposto una rivisitazione dell’originaria TRIADEproponendone un’estensione attraverso un modello, definito PENTA, che aggiunge un paio di dimensioni in qualche modo comunitarie, ottenute dallo sdoppiamento di Illness e Sickness e che mirano quindi a cogliere la valenza e il senso che la comunità attribuisce alla sofferenza individuale legata alla malattia e allo stesso ruolo sociale dell’essere malato. Queste due dimensioni sono chiamate illness esperita e sickscape. Ho voluto quindi testare se questo modello – che incorpora in qualche modo l’originaria Triade – fosse applicabile a qualsiasi condizione di malattia, nella fattispecie le intolleranze alimentari e la celiachia in particolare. I risultati delle mie ricerche hanno evidenziato che i due modelli non colgono un aspetto ritenuto importante da chi soffre di celiachia: nessuno dei 5 aspetti del modello Penta, infatti, riesce a cogliere la percezione di perdita di capacità relazionale legata ad una malattia, di riduzione di capitale sociale insomma. Ecco la genesi della nascita del modello che ho proposto, il modello ESA, che prevede in aggiunta a quelle già note appunto una sesta dimensione che ho chiamato sonetness e che finalmente coglie, a mio giudizio, realmente tutte le dimensioni connesse a uno stato di malattia. Compreso appunto il danno sociale che si concretizza nella perdita di capitale relazionale e sociale legato alla condizione di malattia.

A suo avviso, come possono concretamente istituzioni, associazioni e famiglie collaborare secondo il modello ESA, al fine di limitare il danno sociale delle intolleranze alimentari?

Per limitare il danno sociale è evidente che bisogna rimuovere le criticità maggiori, che a oggi risultano legate alla difficoltà di potersi “alimentare” senza rischio in ogni frangente. È evidente che, soprattutto se confrontata a quella di qualche anno addietro, oggi l’offerta di prodotti glutenfree è enormemente aumentata (anche per una precisa scelta commerciale, come ho già ricordato). Mangiare a casa, quindi, non è quasi mai praticamente un problema. Il problema resta fuori dalle confortevoli mura domestiche: e resta finché non si coglie che il senza glutine non è una scelta alimentare come tante altre possibili ma una necessità inderogabile per una fascia della popolazione. Questo implica che il grande sforzo da parte di tutti deve essere fatto in quella direzione: lungi dall’essere pro o contro la concezione di “malato” – e quindi di assistito – il problema va spostato sull’asse della inderogabile aumentata conoscenza generalizzata del problema. Va sviluppata, insomma, una campagna di “cultura” della celiachia che possa realmente essere d’aiuto a chi poi, nella pratica, deve combattere quotidianamente contro ignoranze e deficienze varie. E su questo credo che tutti dovrebbero essere d’accordo. Ma siccome fare cultura è importante, decisivo, ma forse non è del tutto sufficiente, credo che una mossa decisiva possa arrivare da una regolamentazione differente della erogazione dei pasti: è davvero impensabile che le strutture di controllo regionali, provinciali e comunali oggi preposte al rispetto dei disciplinari non possano tenere conto di chi ha nel glutine un reale nemico della propria salute? Si sono fatti passi da gigante negli ultimi anni sulla strada della tutela della salute legate all’alimentazione pubblica: non si può proprio fare nulla per questo 1% di popolazione (o forse più) che ha problemi con il glutine? Onestamente, credo di sì. Ma bisogna che sia una richiesta forte, generalizzata, condivisa. E, forse, non lo è.

Il gruppo di ricerca da lei guidato ha condotto uno studio intitolato “Celiac Disease Seen with the Eyes of the Principle Component Analysis and Analyse Des Données”. Potrebbe riportarci sinteticamente i risultati ottenuti relativamente ai problemi della compliance* alla dieta gluten free?

* Secondo la definizione del Dizionario di Medicina Treccani, compliance= “adesione del malato alle prescrizioni mediche e ai trattamenti in generale previsti nella gestione di una determinata forma morbosa”

Dallo studio è emerso spontaneamente uno spaccato di vita che racconta delle diverse fasi legate alla compliance alla dieta e al rischio della trasgressione vissuti dalla persona nella quotidianità di ogni giorno, dalla giovinezza fino alla vecchiaia, distinguendo tra differenti stili di vita adottati. I giovani adulti sono coloro che legano il rischio allo stigma, dove si preferisce trasgredire piuttosto che palesare la propria condizione di malattia; per i minori, invece, il quadro complessivo è migliore, la trasgressione è pressoché nulla, poiché il rischio è ridotto al minimo; negli adulti vi è una presa in carico della propria condizione di malattia con una conseguente maggiore consapevolezza rispetto ai rischi; ciò comporta una minore trasgressione alla dieta, ma allo stesso tempo complica le relazioni tra colleghi. Infine gli anziani, invece, sono coloro che intrattengono le relazioni sociali migliori soprattutto in ambito amicale.

Abbiamo osservato anche che rispetto ai comportamenti alimentari esistono tre differenti gruppi, che abbiamo ironicamente raffigurato come: i buongustai, i menefreghisti e i tormentati.

I tormentati sono coloro che pongono maggiore attenzione ai propri comportamenti alimentari, il pasto diviene un problema e l’attenzione verso l’organizzazione del cibo è rivolta per più di un’ora al giorno. Le scelte alimentari sono influenzate dalla condizione di salute e quando queste persone si recano presso un negozio per fare la spesa sono confuse. Si denota quindi un malessere generale.
Il secondo gruppo, denominato “i menefreghisti”, sono coloro che si concedono qualche trasgressione alla dieta credendo che il proprio stato d’animo sia influenzato direttamente dalle abitudini alimentari, quindi rispetto al precedente gruppo la patologia è vissuta con minore apprensione.
Infine per i buongustai, il sapore del cibo è una qualità importante, la scelta dell’alimento è influenzata soprattutto nel momento in cui si effettua la spesa, che di fatto incide su quello che andrà in tavola nei giorni successivi. Sono anche coloro che comprano gli alimenti gluten free anche attraverso canali di vendita alternativi (ad esempio internet e grandi magazzini).

L’area educational del nostro portale si interessa nello specifico di bambini e ragazzi. A questo proposito, sarebbe per noi interessante sapere se esistono degli studi specifici sulla compliance negli adolescenti. Che cosa ci suggerisce la ricerca in questo campo?

Dobbiamo pensare alla persona celiaca come a un attore razionale, ciò significa per gli adolescenti soppesare le diverse scelte a disposizione, al fine di raggiungere l’accettazione e allontanarsi il più possibile dallo stigma che comporta l’essere malato agli occhi del gruppo dei pari. Sicuramente nei momenti legati alla scelta del comportamento alimentare da adottare l’adolescente celiaco soppesa costi e benefici delle possibili azioni da compiere, queste ultime sono quindi legate prevalentemente a una razionalità più di tipo sociale: ciò significa che gli adolescenti preferiscono trasgredire consapevolmente e non palesare la propria condizione di malattia a favore di una accettazione sociale. Comportamento, questo, molto lontano dal periodo dell’infanzia, in cui il livello di attenzione è più alto, non solo da parte del bambino, ma in particolar modo grazie alla famiglia e dall’istituzione scolastica.

In quale direzione si sta muovendo, oggi, la sociologia della salute e di che cosa si sta attualmente occupando il suo gruppo di ricerca, che lavora da tempo sulla celiachia?

La sociologia della salute ha molti temi di ricerca attualmente vivi. D’altra parte, la salute e la medicina sono parte centrale dei percorsi di vita delle persone e quindi gli aspetti sociali implicati sono molteplici. Per i prossimi mesi stiamo organizzando un Workshop dal titolo: Salute disuguale: leggere l’esperienza delle donne, una proposta di sessione congiunta tra le Sezioni AIS – la nostra Associazione Italiana Sociologia che raggruppa i sociologi accademici – “Metodologia”, “Salute e Medicina” e “Studi di Genere”.
Il Workshop si concentrerà sulla relazione tra disuguaglianze di salute e genere, sia sul versante teorico, sia metodologico. Tra i temi che verranno esplorati: donne e salute; mutamenti delle identità di genere e salute; ricerca gender-sensitive nella salute, medicina di genere.

Il mio gruppo di ricerca sta anche lavorando da tempo attorno al tema cruciale della medicalizzazione della vita, concepita come l’estensione di categorie mediche ad ambiti che non erano dominio della medicina, vale a dire quella tendenza a patologizzare fenomeni che, in precedenza, non venivano considerati come malattie. E, più in generale, ci occupiamo di quello che gli anglofoni definiscono “filosofia del Disease mongering”, ovvero gli aspetti connessi alle attività dei cosiddetti “inventori di malattie” (con lo scopo neanche troppo celato di vendere più farmaci).

Per quanto riguarda la celiachia, continuiamo invece a lavorare sul doppio versante delle narrazioni di vite celiache – sottolineando la valenza decisiva della Narrative Based Medicine, altrettanto importante della Evidence Based Medicine in un approccio di tolleranza metodologica – e dei “costi” della celiachia; questa volta non sociali ma proprio economici, e quindi di come e quanto possa influire il mercato del senza glutine sulle tasche dei consumatori.

Curriculum del Prof. Corposanto e riferimenti bibliografici principali su http://www.unicz.it/ricerca/public/docente.php?doc_id=50

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3 Commenti - Scrivi un commento

  1. Ci sono numerosi argomenti da cui prendere spunto per approfondimenti. Lo studio non è proprio recentissimo, per caso si conoscono ulteriori sviluppi?

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    1. Rossella Failla

      Ciao Monica, grazie mille per il tuo interessamento! Mi risulta che, almeno in Italia, le pubblicazioni del Prof. Corposanto siano senz’altro le più specifiche sull’argomento. L’ultimo suo libro che tratta la celiachia dal punto di vista sociologico è del 2011 e si intitola “Celiachia, malattia sociale. Un approccio multidisciplinare alle intolleranze alimentari” (Franco Angeli). Se sei brava con l’inglese, ti segnalo anche questo link, in cui trovi i risultati di una ricerca del 2015 (condotta da Corposanto e altri) che puoi scaricare gratuitamente, con riferimenti bibliografici interessanti: http://www.scirp.org/journal/PaperInformation.aspx?PaperID=56011

      Se invece ti interessa in generale l’ambito della sociologia della salute, gli studi e le ricerche in merito sono tantissime ed eventualmente posso suggerirti altri titoli. Abbiamo comunque intenzione di allargare gli orizzonti e tornare a scrivere di questi argomenti. Continua a seguirci!

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