Food Service, ovvero?
Come direbbe il grande attore Albanese “tutto tutto, niente niente”, Food Service è una definizione che sostituisce il termine italiano ristorazione. Ma, attenzione, il cambio di lessico questa volta non è un vezzo anglofilo, ma una necessità.
La definzione attuale di ristorazione che corrisponde alla traduzione di Food Service, secondo wikipedia è:
un settore commerciale che comprende tutte le attività, incluse quelle su scala industriale, di banqueting e catering legate rispettivamente a produzione e distribuzione di pasti pronti per la clientela, nonché infine alla distribuzione automatica (vending). Diversi tipi di imprese rientrano in questo settore: i ristoranti, le mense delle scuole e degli ospedali, le ditte specializzate di catering ed altri formati, nonché infine le imprese o gestioni del servizio di somministrazione di alimenti e bevande mediante distributori automatici.
Come si nota dentro la “ristorazione” oramai c’è di tutto, non solo quello che veniva considerato ristorazione in senso stretto, ovvero ristoranti, bar e pizzerie e il fenomeno è in espansione.
I nuovi modelli di vita stanno cambiando drasticamente le abitudini alimentari degli italiani che consumano sempre più pasti e spuntini fuori casa, cercando alternative sfiziose, complici anche il passaggio generazionale che vede protagonisti i cosiddetti millenials che mangiano sempre meno a casa e la globalizzazione, che ha fatto scoprire piatti, gusti e sapori da tutto il mondo.
È un’evoluzione che obbliga a modificare la definizione delle attività e degli autori coinvolti in tutta la filiera del food per offrire un’adeguata risposta a chi mangia fuori casa.
Secondo una ricerca del Fipe nel 2016, 39 milioni di italiani hanno mangiato fuori casa, per un valore totale di mercato di 75 milioni di euro, questa spesa corrisponde a circa il 35% della spesa alimentare delle famiglie. Se si aggiungono anche le spese fatte dalle imprese per eventi e dipendenti, il mercato è di oltre 85 miliardi. Si tratta uno dei mercati più importanti d’Europa, il terzo per valore assoluto.
Inoltre, in tutta l’Unione Europea dal 2007, anno dell’inizio della crisi economica, ad oggi si è registrata una flessione generale della spesa alimentare, ma in Italia la contrazione ha riguardato solo i consumi casalinghi e non quelli del Food Service.
E’ più che probabile che nei prossimi anni la tendenza dei consumi alimentari fuori casa aumenterà sino ad arrivare a percentuali simili a quelle degli Stati Uniti, dove il 50% della spesa alimentare è destinata ai pranzi extra-domestici
Che cosa mangiano gli italiani fuori casa? 6 italiani su 10 fanno colazione al bar, spendendo mediamente 2-3 euro, ma c’è anche chi si rifocilla alle macchinette vending. Per il pranzo poco meno di 34 milioni di italiani consuma il pranzo fuori casa durante la settimana e per 5 milioni si tratta di un’occasione abituale (3-4 volte la settimana).
Chi fa pranzo fuori sceglie generalmente un panino o un primo piatto al bar o una pizza al ristorante per una spesa che si aggira sui 5-10 euro (45%).Nel fine settimana si scelgono alternative più gourmet come ristoranti e trattorie con una spesa che oscilla mediamente fra i 10-20 euro.
La maggior parte degli italiani va a cena fuori una volta la settimana, ma sono meno di due milioni quelli che cenano al ristorante almeno tre volte alla settimana. Il valore medio della cena è di 20 euro.
Perché si va a mangiare fuori? Come si scegli il locale o il posto in cui mangiare?
Una ricerca Doxa del 2017 rileva che la maggior parte delle persone che ha partecipato al sondaggio (66%) ha dichiarato di mangiare fuori casa “per stare in compagnia e rilassarsi senza dover cucinare”. Nel 42% dei casi, invece, vuole “sentirsi bene, staccare la spina, cambiare aria e spezzare la routine”. Solo il 41% ha dichiarato di “voler mangiare cose buone che non si possono o non vogliono cucinare a casa”. Si sceglie il posto per la qualità del cibo (77%), e per il prezzo (73%), seguono: la pulizia del locale (62%), la posizione (56%), lo staff (53%) l’atmosfera che si respira (53%) e infine il consiglio di amici e parenti (51%).
Qui entra in gioco anche il web: il 49% degli intervistati pubblica recensioni nel web e la maggioranza le legge, anche se poi ritene che vadano verificate personalmente e i web influencer del settore culinario sono seguiti dal 52% degli intervistati.
Tutto questo fa si che le imprese della ristorazione siano incrementate e attualmente sono circa 325 mila: l’Italia è al primo posto al mondo per densità di imprese di ristorazione, considerando tutte le tipologie, anche lo street food.
Tutto bene quindi? Non proprio.
Il Food Service è uno dei settori a più alto grado di concorrenzialità: complessivamente ci sono 4,5 imprese ogni mille abitanti. Il risultato è che il tasso di sopravvivenza delle imprese a cinque anni dall’apertura è del 52%, ovvero quasi la metà delle nuove imprese del settore chiude prima dei 5 anni di attività.
La realtà dice che crescere e svilupparsi in questo mercato significa saper cogliere tutte le opportunità, sia nella fornitura di prodotti e della materia prima, sia nel prodotto finale.
Il cibo si arricchisce di attributi culturali che oltrepassano grandemente il concetto di nutrimento e si avvicinano sempre più a un sistema di identificazione sociale: gli stili e le scelte dei consumatori si evidenziano nel cosa e come mangiano e l’attenzione al biologico, vegetariano, etnico e persino la riscoperta del cibo da strada, lo testimoniano.
Il consumatore vede sempre di più lo spazio dedicato al Food Service come il luogo in cui non solo consumare un pasto, spesso veloce e sempre di più identificabile come uno snack, ma anche un ambiente dedicato all’edonismo e alla convivialità, basta pensare alle note catene di caffè, con spazi di lettura, studio e wi-fi, o a negozi veri e propri, in cui oltre a consumare si possono acquistare i prodotti.
La competizione quindi modifica l’offerta in tipologie diverse che includono anche il servizio e che ridisegnano completamente i confini delle categorie del Food Service.
In questo contesto porre l’attenzione verso il gluten free e gli altri free from è quasi una scelta obbligata per chi opera nel settore, e lo hanno capito bene le grandi imprese multinazionali che offrono un servizio di consulenza delle loro divisioni Food Service per gli Ho.re.ca sul gluten free e dei prodotti specifici per creare pietanze free from.
Sempre più aziende fornitrici di Ho.re.ca, hanno capito l’importanza dell’offerta di prodotto free from, ma resta comunque debole l’offerta nel punto vendita, a contatto con il consumatore: basta pensare all’offerta dei pasti per la pausa del pranzo, momento in cui la maggior parte dei bar e ristoranti non è attrezzata per una proposta sistematica gluten free o lactose free, mentre questa è invece una nicchia di mercato che potrebbe offrire dei vantaggi competitivi, come abbiamo sottolineato più volte. Secondi ultimi dati Fipe, il 6% degli italiani ricerca prodotti gluten free e il 13% lactose free.
Il mercato free from rientra in un servizio di cura e attenzione alla salute che è sempre più richiesto dal consumatore finale ed è un’opportunità da cogliere e sviluppare, non ci resta che segnalarlo ancora una volta: c’è un mercato insoddisfatto che è una grande opportunità di business, non resta che coglierla, con l’aiuto di tutti gli operatori del settore, i fornitori Ho.re.ca, i formatori, i blogger, e i web influencer.
Fonti:
- Fipe
- Doxa
- Edorado Fornari: Il marketing del foodservice, 2006
- ICA. Instute of culinary art